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Ecco l’agnello di Dio

Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! Così l’evangelista Giovanni presenta Gesù, commentando il battesimo presso il fiume Giordano ad opera del battista. E’ una frase questa che, per il credente praticante, risulta familiare: la ascolta ogni volta che il sacerdote innalza l’eucarestia davanti ai fedeli prima della Comunione. Una frase abituale, apparentemente chiara. Ma è proprio questa sua semplicità che cela una forte densità teologica.

Perché lo chiama Agnello? Perché toglie il peccato del mondo?

La simbologia del mite animale  trova radici nel sistema sacrificale veterotestamentario. Il sacrificio di agnelli aveva un ruolo molto importante nella vita religiosa di Iasraele. C’era il rito quotidiano celebrato nel tempio di Gerusalemme [Es 29,38-42]. C’era il sacrificio pasquale, memoriale dell’Alleanza e della liberazione dalla schiavitù. In entrambe le pratiche religiose, si perpetuava il tradizionale significato dell’azione rituale: Israele sacrificava, ovvero rendeva sacro, un suo bene, per entrare in relazione con Yaweh.

Nella letteratura biblica veterotestamentaria c’è anche un’altra allusione simbolica: il  Servo sofferente messianico, cantato dal profeta Isaia, si dice che era come agnello condotto al macello (53,7). Questa volta viene sottolineata non l’azione sacrificale, ma il sacrificato. Il Messia, assume su di sé il male per eliminarlo. Egli, sacrificio vivente espia il peccato e riconcilia l’umanità con Dio.

Ma c’è un terzo aspetto, ed è forse a questo che l’intelligenza dell’evangelista Giovanni pensava quando ha proclamato Gesù l’agnello di Dio. Il suo substrato originante è la letteratura apocalittica dove l’agnello mite sconfigge la bestia perché è il Signore dei signori e il Re dei re (17,14).

L’agnello che Giovanni invoca non è l’agnello dell’uomo, dato in sacrificio come capro espiatorio, è l’agnello di Dio. C’è un totale capovolgimento di prospettiva: . Nel sacrificio di Gesù non è l’uomo che dà qualcosa a Dio, ma Dio dà se stesso all’uomo. Il principio è sempre quello, ma si capovolge. Dio interviene nella nostra vita facendosi uomo come noi, accettando di perdere se stesso. La persona di Gesù è il dono di Dio, è Dio che si dona in persona, ed è un sacrificio vivente.

 

E’ possibile contemplare questa verità di fede in un’opera di Francisco de Zurbarán, un artista spagnolo del 600.  In realtà l’artista fece ben 6 copie, con varianti, di questo soggetto devozionale molto in voga ai suoi tempi.

Francisco de Zurbaran, Agnus Dei, 1635-1640, Museum Of Art, san Diego.

Un mansueto agnello occupa tutta la scena; ha le zampe legate, e sul dolce capo mansueto è posta un’aureola, segno di divinità. E’  Lui l’Agnello di Dio! Colui che Pur di natura divina, si fece obbediente per la salvezza di tutti. Sullo zoccolo di pietra dove è appoggiato l’animale una scritta: Tamquam Agnus in riferimento al versetto degli atti degli Apostoli (8,32).

Al luminoso vello, che irradia luce, si oppone uno sfondo tenebroso. È il modo in cui l’artista ha raffigurato il peccato del mondo a cui si oppone la vera luce, quella che dà vita. Egli è infatti Colui che toglie il peccato del mondo. Non si tratta dei peccati del mondo, dei peccati umani, questi sono legati alla libertà umana di decidere contro il Bene. Il peccato del mondo, che precede la stessa venuta storica del Figlio di Dio, è ontologicamente qualcosa di diverso. Rappresenta un ostacolo alla comunicazione tra Dio e l’umanità.  E’ il rifiuto dell’offerta di pienezza di vita che Dio offre all’umanità.